Jacob Harlon ha una vita perfetta: un lavoro perfetto, amici intelligenti e divertenti, una moglie non solo bella e amorevole ma in procinto di realizzarsi in qualità di architetta/designer d’interni, un figlio obbediente che stravede per lui.
Tutto si dissolve in pochi istanti, sono sufficienti alcuni bicchieri di vino e una luce rossa: a cena con sua moglie e un’altra coppia, Jacob trascorre il tempo allegramente e quindi monta in macchina per dirigersi a casa dando un passaggio anche all’amico e alla sua compagna. Distratto, non rispetta un semaforo e ha un grave incidente nel quale perde la vita il collega.
L’avvocato è chiaro fin da subito, le prospettive non sono buone: la colpa è chiaramente di Jacob e sul luogo dell’incidente era presente anche una telecamera. Piuttosto che affrontare un processo che potrebbe imprigionarlo anche per sette anni, vista la durezza del giudice, è meglio patteggiare e affrontar una pena più breve.
Purtroppo tutto ciò significa comunque una permanenza in un carcere insieme a criminali incalliti e violenti, e fin dal primo giorno dentro la struttura penitenziaria Jacob comprende chiaramente che, se rimarrà isolato, per quanto possa reagire e affrontare fisicamente l’avversario di turno, finirà prima o poi con il soccombere.
L’unica sua speranza è unirsi a qualche gruppo o gang e la scelta obbligatoria, per un bianco in un carcere californiano, sembra essere l’Aryan Brotherhood, la Fratellanza Ariana. Il percorso di Jacob, fino a questo punto, è costellato di errori e scelte decisamente sbagliate: è stata una scelta sbagliata (bere e guidare) a portarlo in carcere, sarà una scelta sbagliata a complicare in modo decisivo e irrimediabile la sua esistenza, in prigione e, come vedremo, fuori.
La Fratellanza Ariana, pur essendo una gang numericamente inferiore a molte altre, vanta una ferocia e una violenza fuori scala. È responsabile, nella vita reale, di circa un terzo degli omicidi che avvengono all’interno dei penitenziari statunitensi e per affiliarsi è sufficiente soddisfar due condizioni: essere bianchi e riuscire nella prova d’entrata, il cosiddetto “blood in, blood out” che, insieme a la regola “earn your ink”, domina questo gruppo, improntato a vaghe e farraginose teorie nazistoidi.
Blood in, blood out significa che per entrare nella gang dovrai uccidere qualcuno in carcere e che dalla Fratellanza ne uscirai solo morto. Earn your ink significa che molti dei tatuaggi che adornano simpaticamente i corpi palestrati di questi energumeni con svastiche e altri simboli d’amore, devono essere guadagnati tramite progressive azioni meritorie, un po’ come accade in alcune organizzazioni mafiose.
Ne consegue che più tatuaggi hai, più in alto nella gerarchia sei.
Jacob, che d’ora in poi sarà chiamato (e quindi, battezzato, rinasce) “Money” per via del lavoro che svolgeva nella sua precedente vita, accetta i termini: uccide un detenuto, svolge altri compiti per i capi, diventa un membro violento e privo di scrupoli e la sua permanenza in carcere si allunga di parecchi anni.
Ma questa dedizione gli permette di scalare i ranghi e guadagnarsi il rispetto dei capi, in particolare del temutissimo The Beast che, da dentro un carcere di massima sicurezza e con la complicità di alcune guardie, riesce a controllare anche i crimini e gli affari esterni della gang.
Jacob/Money, che nel frattempo ha interrotto da anni ogni contatto con la moglie e il figlio, proprio grazie a The Beast riesce finalmente a uscire. È libero ma dovrà continuare a lavorare per la Fratellanza: in particolare è incaricato del trasporto e vendita di un grosso carico d’armi a un gruppo di criminali messicani (le gang carcerarie sono, fra l’altro, regolate da un complesso sistema di alleanze e contrapposizioni). The Beast fa capire chiaramente al suo sottoposto che non ci sono scelte: o collabora o sua moglie e suo figlio finiranno male.
Costretto a ubbidire, Money dovrà confrontarsi sia con un gruppo di tenaci poliziotti che con un traditore…
La fratellanza è un film del 2017 che mischia elementi crime, thriller e action, ambientato prevalentemente in carcere ma con una buona porzione, distribuita in salti cronogeografici grazie al dilatato e attento montaggio di Michelle Tesoro, che si svolge in una Los Angeles sia diurna che, più interessante, notturna, fotografata in modo piatto, lunare, all’acetilene dal dop di fiducia di Ric Roman Waugh, il sempre più bravo Dana Gonzales.
L’opera viaggia su due binari di fruibilità: il semplice intrattenimento che soddisferà molto gli amanti dei film carcerari, in particolare grazie alle impeccabili scelte di cast di due fra le migliori veterane in assoluto nel campo, Mary Vernieu e Lindsay Graham.
Le due hanno all’attivo centinaia di titoli e probabilmente possiedono un perfetto catalogo fotografico mentale: dovendo riempire carceri e strade di Los Angeles con gli obbligatori brutti ceffi, chiamano a raccolta parecchi noti caratteristi delle colline losangelene. Troviamo quindi Jon Bernthal, l’irresistibile e simpaticissimo Evan Jones o il temibile e spaventoso Keith Jardine e possiamo contare su una popolazione carceraria credibile per quel che è il nostro immaginario, popolazione che fornisce la struttura portante delle varie scene fra le sbarre.
Vi sono poi le obbligatorie sottotrame: dal rapporto famigliare giocato con sufficiente intensità sullo sguardo acquoso di Lake Bell (Kate, la moglie di Jacob), alla preparazione e gestione del traffico d’armi fino a qualche scena dedicata ai poliziotti, con uno spunto, a mio modo di vedere non sufficientemente sviluppato, su un trauma del principale agente investigativo dovuto a uno scontro a fuoco.
C’è poi, per chi vuole, il sottotesto, la tesi dell’opera: il carcere è una istituzione completamente fallimentare, che lungi dal redimere trasforma gli uomini in criminali sempre più perfezionati e incalliti e li chiude in un processo involutivo dal quale è molto difficile sfuggire. Questo accade ovunque: negli USA la situazione è però resa ancora più drammatica vuoi da un sistema giudiziario reso sempre più punitivo di decennio in decennio (ricordiamo la terribile legge “three strikes” voluta dal democratico Bill Clinton), vuoi dalla privatizzazione delle prigioni, con conseguenti forti interessi economici a mantenere una folta popolazione all’interno delle mura.
A fronte di tali prospettive, Jacob/Money reagisce in modo quasi sovraumano, sia dal punto di vista fisico che mentale, e se l’esito finale (e tutta la gestione delle scene fuori dalla prigione) risulta poco credibile sebbene comprensibile dal punto di vista delle esigenze drammaturgiche volte allo spettatore medio statunitense, lo sviluppo, il making of di un nuovo ariano è sufficientemente dettagliato, non solo per quel che riguarda costumi e make up dei tatuaggi (nonché dei corpi palestrati e dei corpi in generale, elemento centrale quando si parla di istituzioni quali il carcere) ma anche in dettagli che potrebbero sfuggire allo spettatore meno accorto, quale l’insieme di libri suggeriti e letti da questi patetici destrorsi.
Gli autori che, volenti o nolenti, ispirano determinate ideologie sono più o meno sempre gli stessi e si passa dai prezzemolini obbligatori (Sun Tzu e Nietzsche) a Machiavelli e Miyamoto Musashi, fino all’azzeccato Per chi suona la campana che, chi lo ha letto magari ricorderà, propone una visione comunque originale di certi accadimenti e schieramenti e in definitiva della natura umana.