“I vostri figli”, tratto dall’opera “Il profeta” di Kahlil Gibran, è un brano di enorme valore perché illumina un concetto apparentemente semplice eppure spessissimo contraddetto dall’esperienza. I figli non sono una proprietà di chi li mette al mondo, costituiscono altro da lui, radicalmente.
I genitori non sono cioè dei veri creatori dei loro frutti ma solo dei mezzi, come degli archi tesi dalla mano di un principio trascendente, che muove tutto. Il loro compito è quello di amare per rendere liberi, per far volare gagliardamente lontano le frecce, non per piegarle ad un proprio volere o per confinarle in un recinto. Si ammala la vita quando ne viene soffocato il volo.
Purtroppo la pratica clinica mostra invariabilmente situazioni di patologie o sofferenze psicologiche indotte dall’incapacità dei genitori di lasciare veramente liberi i loro figli. Questo fenomeno può palesarsi in modo plateale oppure più sfumato, in ogni caso testimonia un’impasse dell’adulto nei confronti del proprio desiderio.
Sempre, sullo sfondo, c’è una frustrazione, un’irresoluzione, un’incompiutezza che si cerca di colmare attraverso l’esercizio del controllo su una creatura più fragile e malleabile. Come dice bene Gibran però, potete dar loro il vostro amore ma non le vostre idee, perché un figlio, anche quando è piccolo e bisognoso è comunque altro, ha una sua volontà irriducibile, una sua sacralità appunto.
Spesso sono le madri a condizionare pesantemente i figli, non a caso nella poesia è una donna che stringe a sè un bambino a domandare al profeta di esprimersi a riguardo. Una madre sulle prime è chiamata a donarsi alla sua creatura senza aspettarsi nulla da lei, e gradatamente è altrettanto chiamata a fare mille passi indietro. Molte donne faticano qui: non nel darsi, ma precisamente nel ritrarsi. Se il figlio va a colmare un vuoto di desiderio, un vuoto d’amore, un partner assente o problematico, la madre non si farà da parte e lo soffocherà.
E l’esser messo nella posizione di partner ideale della madre insoddisfatta produce degli effetti disastrosi, che spaziano dalla difficoltà nel libero dispiegarsi della personalità più vera fino al dramma della passività radicale. La vita non torna indietro, né può fermarsi a ieri, tale circostanza è una malattia della vita, che può portare fino alla morte psichica.
Se quest’ultima situazione non si verifica, se cioè la spinta alla vita è più forte di qualsiasi catena, il momento della ribellione arriva. Un incontro significativo con qualcuno o qualcosa può, presto o tardi, risvegliare la coscienza del diritto ad esistere come essere autonomo. La soggettività, assopita ma non morta, comincia a reclamare ossigeno.
Tipicamente ciò accade nella fase adolescenziale, ma a chi è stato a lungo vittima del gioco della madre può succedere molto più tardi. Ecco che il bambino ubbidiente e pacato, il bravo ragazzo compiacente diventa aggressivo e intrattabile. Il No! urlato prepotentemente apre la via alla separazione. Oppure compaiono dei sintomi. Inibizione nelle relazioni o nel lavoro, depressione, abulia. Segni che qualcosa non va, segni che il soggetto non si piega più alla domanda dell’Altro.
Ma quando la ribellione provocatoria o i sintomi auto invalidanti restano gli unici modi per dar voce alla volontà di distacco, la rete del condizionamento non si spezza, anzi, finisce con l’avvilupparsi sempre di più intorno al figlio. I sensi di colpa la fanno da padrone, perché il ribelle o il depresso, non concludendo nulla, danno una delusione alla mamma e questo non possono tollerarlo nel profondo. Come farà senza di me? Cosa sarò senza di lei? L’altalena fra strappi e ritorni rischia di farsi infinita. L’invisibile laccio non si spezza. Permane l’inutile attesa che sia finalmente l’Altro a cambiare posizione, cosa assai rara. A volte è il genitore che si ridimensiona, spesso dopo crisi profonde, grazie al coraggio del figlio che compie l’atto di rompere il cordone.
Libero il giovane lo diventa se accetta di non esserlo. Anche chi ha ricevuto il dono dell’amore senza condizioni non può non incontrare limiti alla propria volontà. È più difficile e doloroso uscire dal legame condizionante, ma un’analisi o una qualsiasi esperienza esistenziale forte, possono aiutare a sciogliere il circolo vizioso della colpa e della rivendicazione rabbiosa.
Nel momento in cui ci arrabbiamo o siamo schiacciati dal rimorso non siamo davvero liberi. Si tratta di una fase intermedia, necessaria, anch’essa superabile nel mentre si impara ad accettare (non passivamente!) tutto quello che è stato, ricominciando da ciò che c’è, non voltandosi più indietro con rabbia o disperazione. È la riconciliazione.
Il volo della freccia può così riprendere dopo una parentesi stagnante o turbolenta, mentre l’arco può perfino divenire saldo, se si lascia impressionare della forza delle frecce scagliate non da lui ma attraverso di lui.