Si chiama «panofobia». Ma è conosciuta anche come polifobia, omnifobia, pantofobia o panfobia. Un rosario di termini di origine greca per definire «la vaga e persistente paura di un male sconosciuto». Gli psicologi la conoscono anche come «paura di tutto» o «paura non specifica».
E poi c’è la «misantropia», termine sempre di origine greca che, tra gli altri significati, comprende che quello del disprezzo nei confronti del genere umano e, quindi, anche delle sue paure. Spesso sfocia nell’odio, ma più comunemente nell’indifferenza, cioè nell’isolamento materiale o morale dagli altri.
Quale delle due è più pericolosa in quello che potremmo definire «l’anno zero» di una nuova era dell’Umanità, vale a dire quella in cui ci troviamo, al di qua del confine tracciato dal coronavirus? La risposta l’abbiamo avuta nei secoli, ma anche in tempi più moderni. L’abbiamo avuta persino giovedì scorso, durante il Consiglio europeo che doveva prendere delle misure urgenti e unitarie contro l’emergenza Covid-19 e che, invece, è finito per dimostrare quanto la misantropia rischi di annientare il concetto della solidarietà. A discapito della panofobia.
Ieri sera, durante quella surreale preghiera in piazza San Pietro, apparentemente «in solitaria» ma seguita da tutto il mondo nel solo modo in cui oggi si può partecipare a qualcosa (cioè in tv o su Internet), papa Francesco diceva: «Ci siamo illusi di rimanere sani in un mondo malato». In molti si erano illusi di questa eventualità. Convinti che i mali appartengano sempre agli altri. E che si sia in grado sempre e comunque di avere tutto sotto controllo. Non guasta, però, e giusto per non uscire dal contesto, ricordare che già nel 1600 il cardinale Di Retz suggeriva: «Ci si lascia imbrogliare più spesso per troppa diffidenza che per troppa fiducia»
Tornando ai giorni nostri, l’Europa – e di conseguenza l’Italia – rischia di essere la vittima di quell’imbroglio della troppa diffidenza, delle sue stesse contraddizioni e della sua misantropia, più che della pantofobia.
Parliamoci chiaro: l’Unione europea ha sempre voltato lo sguardo da un’altra parte quando si vedeva costretta a guardare la paura nella faccia degli altri. L’Italia, come la Spagna, i due Paesi geograficamente più esposti ai flussi migratori, hanno sempre chiesto (forse sarebbe il caso di dire implorato) aiuto a Bruxelles per gestire l’umano sostegno dovuto a chi scappa da una situazione di sofferenza, così come da Milano scappavano decine di migliaia di italiani del Sud perché si sentivano minacciati da un’epidemia. Anche se questi ultimi, però, correvano a mettersi al riparo senza sapere il perché e senza avere mai sentito il rumore di una bomba che distruggeva la loro casa ed il loro futuro. Sto bene io, stanno bene tutti: questo è il concetto.
L’Europa ha fatto orecchie da mercante quando gli altri avevano bisogno, così come qualche singolo Paese o alcuni partiti dei singoli Paesi. Gli stessi che si sono lamentati del fatto che i connazionali venivano rifiutati in queste settimane perché «portatori di malattie» in quei posti dove andavano in vacanza, non a scappare dalle guerre o a cercare un pezzo di pane.
Da qualche giorno, però, l’Europa ha scoperto di essere misantropa non solo nei confronti di chi arriva da oltre i confini dell’Unione (chiamiamola così) ma anche verso i suoi stessi Stati membri. Non si può spiegare in un altro modo la reazione di Paesi come l’Olanda o la Germania che evitano di prendere delle misure per il bene di tutti e spingono per proteggere il proprio orticello, senza pensare all’orto comune da cui colgono anche loro (soprattutto Berlino) i frutti più saporiti.
Lo sceneggiatore spagnolo Daniel Gascon scrive oggi sul quotidiano El Pais: «Una delle cose che vengono disprezzate più facilmente è la paura degli altri. Forse è un timore esagerato, ma giova ricordare che la paura degli altri appare sempre più irrazionale rispetto alla nostra. Forse è un meccanismo di autodifesa: abbiamo paura della paura degli altri, nel caso potesse diventare la nostra stessa paura. Siccome il coronavirus è iniziato lontano – continua Gascon – e colpiva soprattutto le persone anziane e con altre patologie, non era difficile pensare che non sarebbe mai arrivato a noi». Sono due i pericoli, conclude lo sceneggiatore: «L’insensibilità verso gli altri e l’imprudenza verso il proprio rischio».
In una sola frase troviamo la sintesi di quello che sta succedendo in queste ore. Da una parte, l’insensibilità mostrata dai da chi – Germania, Olanda ed altri governi compresi – pensa che in questo momento la soluzione migliore sia quella del «si salvi chi può». Poco importa se si fa parte di un insieme di Stati che dovrebbero aiutarsi a vicenda. Come diceva Mark Twain, «l’uomo è pieno di contraddizioni: a casa sua esige di essere servito come in un albergo e, quand’è in albergo, si secca se tutto non è come a casa sua».
Dall’altra parte, il rischio è stato spesso sottovalutato. Dai singoli cittadini come dagli interi governi. Negli Stati Uniti si è perso troppo tempo a criticare la Cina, anziché pensare a come proteggersi da una pandemia che prima o poi avrebbe colpito anche gli Usa. Risultato: oggi è il Paese con più contagi (oltre 100mila) e con una cifra di morti che comincia ad avvicinarsi molto a quella degli attentati alle Torri Gemelle.
In entrambi i casi, il disprezzo della pauradegli altri si dimostra più letale della paura stessa. Se c’è una cosa che insegna questo drammatico passaggio epocale della Storia è che non esistono più confini e nessuno può sentirsi al sicuro. Potenti come poveri cristi. La paura di chi ci sta accanto va capita e accettata, perché domani potrebbe essere la nostra. Solo questo ragionamento può spingere a dare una risposta globale ad una minaccia globale. I campanili sono destinati a crollare, gli orticelli a marcire, gli interessi privati ad affondare. Diceva Martin Luther King, spesso citato per la sua saggezza: «Può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla».